24 aprile 2012

Un tipo che aveva un nome simpatico

"Caro figliuolo."
No. Troppo paternalistico.

"Caro giovane concittadino."
No. Troppo napoleonico.

Ho deciso di rispondere alla lettera apparsa sul giornale online buongiornoalghero.it di Mattia Uldanck, un giovane che chiede ai politici per quale motivo lui e i suoi coetanei dovrebbero andare a votare alle prossime elezioni comunali.

In effetti non sono sicuro che si rivolga a me, visto che parla di gigantografie e slogan mentre io, per quanto candidato, non ho né voglia né risorse da investire in questo tipo di comunicazione.

Tuttavia, ora che ci penso, questo ragazzo mi ricorda qualcuno. Eh, già: qualcuno che conoscevo proprio bene.

Caro me stesso di venticinque anni fa. Tante cose sono cambiate da quando, giovane di belle speranze, cominciavi a muoverti autonomamente nel mondo degli adulti.

Forse oggi studi all'Università, oppure vai a lavorare, ma per la maggior parte della tua esistenza sei stato uno studente: un vestito comodo e spensierato che fra qualche decennio ti accederà più di un led di nostalgia.

Sei già andato a votare tre o quattro volte ma, lo confessi con imbarazzo perfino a te stesso, quando sei entrato nella scuola elementare adibita a seggio, nei corridoi che odoravano di gesso, ti sei trovato quasi smarrito a scorrere quegli elenchi di nomi, allineati uno sotto l'altro, come santi di un calendario, e in alto, al posto del chiodo, un dischetto col simbolo. Giusto: la pubblicità.

La gran parte dei nomi appartenevano a perfetti sconosciuti. Alcuni li avevi già sentiti, ma non riuscivi ad associarli ad un ricordo, un giudizio preciso. Hai votato quasi a caso, un tipo che aveva un nome simpatico.

Ovviamente a scuola, durante gli scioperi o le manifestazioni, hai visto le bandiere e ascoltato discorsi politici, ma l'idea stessa che qualcuno, per la bandiera che stringeva in pugno, o il megafono in mano, si sentisse in diritto di scandire slogan che gli studenti dovevano poi ripetere come un plotone di reclute ti sembrava meschina.

Una grottesca caricatura della processione del Venerdì Santo, cui avevi partecipato anni prima coi boy scout. Mancavano giusto gli incappucciati, ma, a ricordare bene, c'era un gruppetto di tipi grandi, con l'aria da duri, giubbotti sdruciti e sciarpetta mediorientale; e non guardavano in faccia nessuno, quasi a marcare la differenza fra il supremo valore della loro missione e la ciurmaglia di qualunquisti fighetti ciucciacocacole che formava il corteo.

Gli scioperi contro le decisioni del ministero erano notoriamente una farsa: la scusa perfetta per dribblare un compito in classe e andare a provare qualche pezzo rock nel garage di Tore, e chissenefottedeiprecari.

Caro me stesso, dicevo, la politica fino a oggi ti è apparsa come materia astrusa da dibattiti televisivi o, più localmente, come insieme di squallidi episodi, trasmessi di bocca in bocca con espressione rassegnata da adulti, che però se gli chiedevi di ripetere cambiavano discorso.

Ebbene ti sbagliavi. La politica non è l'aria fritta dei dibattiti televisivi né il racconto diventato, a forza di passaparola, pettegolezzo, per galantuomini che “vogliono starne fuori”.

La politica è essenzialmente un insieme di solidi fatti.

È la cancellata con lucchetto che sbuca apparentemente dal nulla ad impedire a te e ad altri di accedere ad una spiaggetta.

È il mucchio di elettrodomestici e copertoni che indisturbato si accumula in una strada di periferia. È l'insensato, mastodontico blocco di calcestruzzo e vetro che tutti chiamano palazzo dei congressi anche se in vent'anni non ne ha mai ospitato uno.

È l'autobus al quale accompagni la sera un tuo amico, i cui genitori hanno deciso l'anno scorso di prendere casa ad Olmedo perchè qui costava troppo.

È il tronfio fuoristrada parcheggiato sempre sullo stesso marciapiede che ti costringe a strisciare fra il muro e le sue lucide fiancate impunite.

È il viso indurito di un tuo ex compagno di scuola che sai per certo che sta frequentando della gentaglia, ed era pure un bravo ragazzo, ma col padre che lavora all'estero e la madre semialcolizzata si intuisce che fa una vita di merda e forse al posto suo faresti anche peggio.

Hai osservato che ho elencato solo fatti negativi? Certo. È per questo che si parla tanto di cambiamento, perchè la gestione della cosa pubblica (il tanto celebrato Bene Comune) negli ultimi decenni ha lasciato molto a desiderare.

Si vuole cambiare perchè si sente il bisogno, nell'amministrazione della città, di onestà e competenza. Del resto, inutile negarlo, la buona politica non fa notizia come quella cattiva. La città è come un gigantesco condominio: il sindaco è l'amministratore e noi gli versiamo le quote per pagare la luce delle scale e il gasolio. Quando poi, ai primi di Dicembre, fa accendere il riscaldamento, cosa dovremmo fare, mandargli a casa una cassa di vino? Non vedo perchè. Ha fatto il suo dovere. E' pagato per questo.

E qui mi fermo, caro me stesso di venticinque anni fa, perchè non sono neppure sicuro che tu stia ancora lì a sentirmi, ma ho ancora qualcosa da aggiungere. Sempre restando nella metafora del condominio, ti suggerisco senz'altro di partecipare all'elezione del nuovo amministratore, ma anche di cominciare a seguire le riunioni, tenerti informato sulla gestione e, se c'è qualcosa che non va, farlo presente subito. Fai valere i tuoi diritti.

E infine un'ultima cosa, non smettere mai di studiare, di impegnarti in quello che fai, e di cercare di capire il perché delle cose. Col tempo ti accorgerai che forse questa curiosità è la nostra più grande ricchezza.

Abbiti cura.

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