11 dicembre 2011

Entrando nel Merito

Recensione di Nicola da Neckir, Contro la meritocrazia, La Meridiana, 2011

Su Alfalibri – Alfabeta2 n. 15 dicembre 2011

Chi non considera l’università un’azienda ma piuttosto una istituzione “che ha il compito di garantire lo sviluppo della ricchezza sociale in termini di conoscenze, competenze e consapevolezze” non può che guardare con apprensione quello che sta avvenendo il quella istituzione, il suo degrado crescente e la sua difficoltà a svolgere la funzione prima indicata. Tutta responsabilità di questo governo e della inconsapevole avvocato Gelmini ministro della “pubblica istruzione”? sicuramente no, ma con altrettanta sicurezza si può convenire che il contributo di questo governo appare fondamentale. Non sono poche le responsabilità di chi all’università ci lavora o la “governa”: incapacità, incomprensione, brama di potere, nepotismo, ecc.

Non aver circa vent’anni fa eliminate le facoltà in concomitanza con la creazione dei Dipartimenti, che sostituivano gli anacronistici Istituti, è stato un errore fondato sulla necessità di garantire posizioni di prestigio (“Il Preside”, con annessa segreteria e altre strutture). Giungere oggi a questo soluzione sembra un passo avanti se non si considerasse la perniciosa e correlata disposizione che i Dipartimenti sono possibili e obbligatori solo a partire da un certo “numero di docenti” (40, mi pare); forse si tratta di un riflesso aziendale: la realizzazione di economie di scala (senza nessun rispetto per il prodotto). Non ha importanza il progetto culturale, didattico e di ricerca di un Dipartimento, esso ha diritto di “essere” solo se raggiunge il definito numero di professori aderenti. E se un progetto un gruppo di docenti non fosse sufficiente, allora si aggregano altri, di altre discipline, con altri progetti culturali, in una mistificazione di strutture nel migliore dei casi, in un annullamento di ogni progetto culturale, didattico e di ricerca nella normalità dei casi.

Che ci sia nepotismo dentro le università non si può negare, ma l’argomento non produce una seria riflessione ma solamente la presa di posizione, ovviamente scandalizzata, dei ben pensanti. La omonimia diventa dimostrazione di nepotismo. Gli “Indovina” nell’università di Palermo credo siano numerosi (o lameno lo erano un tempo), ma escludo siano miei parenti (senza dire che in quella università non ho mai insegnato). Le semplificazioni non aiutano a comprendere, a capire e quindi eventualmente a provvedere. Qualche mese fa un ricercatore italiano ma che lavora negli USA, omonimo di un rilevante editorialista del Corriere della Sera, anch’esso docente negli USA, ha pubblicato, e il Corriere a riportato, una sua ricerca (si fa per dire) sulle omonimie ricorrenti nelle università italiane (indice di nepotismo). È sembrato strano che questo stesso ricercatore, anche solo come segno di autoironia, non avesse segnalato la sua omonimia con l’editorialista del Corriere e docente in USA (magari non sono parenti, non insinuo nulla, mi riferisco allo scarso senso di opportunità e di ironia). Ma tant’è il moralismo è senza ironia. Detto questo non voglio cancellare scandalosi casi di nepotismo, ma solo segnalare che il problema è più serio e complesso della semplice omonimia, che piace agitare, c’è dentro una complessa questione di “selezione”, che non può essere semplificata.

Arnaldo Cecchini, docente all’università di Sassari, sotto lo pseudonimo di Nicola da Neckir (anagramma del nome dell’autore) ha scritto un prezioso libretto provocatoriamente dal titolo Contro la meritocrazia (Edizione la Meridiana, pag. 82, €12, 2011). Per non scandalizzare il ben pensante, vorrei chiarire subito che il prof. Cecchini non è contro i “meriti”, che rivendica, ma contro la burocratica idea che la valutazione meritocratica possa essere effettuata sulla base di indicatori. Utili, sostiene l’autore, ma non determinanti per una valutazione di “merito”.

Vorrei fare un appunto all’autore: il libro doveva essere dedicato all’avvocato Maria Stella Gelmini, ministro della pubblica istruzione, perché riducesse la sua inconsapevolezza circa i meccanismi e il ruolo dell’università e della scuola in genere. Le gaffe recenti del ministro (o dei suoi collaboratori) potrebbero esserle perdonate se avesse cognizione di che cosa parla, questo è il guaio.

È abbastanza comico e tragico, nella stesso tempo, la distorsione operata da R. Abravenel (documentata nel libretto) del testo di M. Young, che in un libro di critica sociale, nel quale esaltava le “differenze individuali”, aveva elabora ironicamente la formula della meritograzia M=I+E (dove I è l’intelligenza ed E – effort – lo sforzo dei migliori). Nel libro di Abravanel la formula perde il suo connotato satirico e diventa operativa. Il testo di Abravanel riportato da Cecchini, piacerebbe sicuramente al duo Gelimi-Tremonti: “La “I” porta a selezionare i migliori molto presto, azzerando i privilegi della nascita e valorizzandoli attraverso il sistema educativo: è l’essenza delle “pari opportunità”. La “E” è sinonimo del libero mercato e della concorrenza, che, sino a prova contraria, sono il metodo più efficace per creare gli incentivi economici dei migliori”. C’è da dire che l’ingegnere Abravanel, laureato al Politecnico di Milano, avrebbe dovuto avere, dati i tempi, qualche dubbio circa l’efficienza del mercato per premiare i “migliori” (quando la teoria è in disaccordo con la realtà, è la realtà in errore).

Il merito è rilevante, da esso “in molti casi non si può prescindere” per scegliere le persone a cui affidare specifici compiti; ma riconoscere il merito non ha niente a che fare con la computazione meritocratica. Il merito non è un assoluto, è un qualità da considerare insieme ad altre (“la capacità di relazione, l’empatia, la solidarietà, l’umorismo, la generosità ….). Non può essere un assoluto anche perché è difficile da misurare, ma sicuramente è una componente importante per la selezione dei docenti e per la valutazione degli studenti, ma come afferma Cecchini, non unica. Gli studenti “anomali”, intelligenti ma che non sopportano la routine, che seguono loro percorsi, sono preziosi, mettono in discussione la struttura e la stimolano, ma noi forse li … bocciamo.

L’università non è né deve essere considerata un’azienda, i parametri di giudizio devono essere diversi. Così l’autogoverno non è né un’aberrazione né il risultato di autoreferenzialità, mentre sono il pilastro fondamentale della libertà di insegnamento e di apprendimento.

Così la misurazione dell’efficienza di un Dipartimento o di un Ateneo sulla base della “produttività” della ricerca, misurata in volumi, testi, articoli, ecc., è un assurdo, che produce solo, molto spesso, montagne di carta, spesso senza un’idea. Costruiamo la psicologia dei dottorandi, no tanto ad avere almeno un’idea, ma a pubblicare; la compilazione diventa la linea guida della ricerca, o detto alla Sraffa “produzione di saggi a mezzo saggi”.

Se esistesse oggettivamente una difficoltà a valutare seriamente la ricerca, e non vale il numero di citazione, l’impatto, e similari, che spingono non già all’innovazione ma al conformismo, tale difficoltà sarebbe estremamente più rilevante per la misura della didattica. Le tesi seguite, i risultati conseguiti, gli studenti promossi, i voti ottenuti, ecc. tutte cose utili ma non sufficienti per una valutazione seria. Come afferma il nostro autore spesso il criterio di discussione e le soluzioni individuate per l’università sono del tipo “Bar dello sport”, ad un problema complesso una soluzione facile e … sbagliata.

Spendiamo poco, meno di altri paesi, per l’Università; c’è una parte di docenti che lavora poco (preso da altri impegni, dalla professione, agli incarichi politici, dagli affari alle consulenze, ecc.); la selezione dei docenti è complessa essa non può avere carattere assoluta ma deve misurarsi con le esigenze di quella specifica sede (un premio Nobel, potrebbe non essere adeguato, perché si ha bisogno nello specifico non di un geniale ricercatore ma di una persona che si dedichi prevalentemente alla didattica); ci sono arrugginite strutture; nuclei di potere che di difendono; nepotismi; strutture talvolta fatiscenti; risorse scarse; gerarchie impossibili da scalfire e che costituiscono vincoli all’assunzione di giovani; ecc. I mali sono tanti e diversi, ma non esistono soluzioni semplici, ma soprattutto non esistono soluzioni che sfuggano all’autogoverno, né soluzioni che introducano sistemi di valutazioni applicabili in altre strutture (la famosa azienda). C’è sicuramente la necessità di una ricostruzione sociale e politica del ruolo dell’insegnamento universitario, c’è sicuramente la necessità di ridisegnare ruoli e poteri interni, sicuramente qui semplificando (il docente unico articolato in fasce), c’è la necessità che il paese investa di più.

Di questo e di altro ancora tratta il testo, spesso corrosivo, di Cecchini meritevole di diffusione e di riflessione, si può essere in disaccordo su qualche punto, si può non condividere qualche affermazione, ma si tratta di un contributo onesto e riflessivo di chi ha a cuore l’università e la sua funzione ed ad essa dedica intelligenza e lavoro.

“Non siamo venditori della merce “sapere” e neppure i fornitori di un servizio. Siamo, o dovremmo essere, parte di una comunità di liberi e uguali che ha lo scopo … di accompagnare giovani donne e giovani uomini a diventare cittadini colti e competenti, persone “verticali”, con la schiena dritta, capaci di pensare e di ribellarsi alle ingiustizie, e capaci di farlo perché competenti e istruiti, capaci di sviluppare le loro capacità, i loro talenti, di proteggere le differenze, le relazioni, la cura e i cui risultati devono dipendere, in ultima istanza, dai loro meriti”.

Tratto dal blog di Francesco Indovina Felicità Futura.

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